Clelia Marchi
Il tuo nome sulla neve
Gnanca na busìa
Il romanzo di una vita scritto su un lenzuolo
Prefazione di Carmen Covito
Il Saggiatore 2012
ISBN 978-884281868-7
Dal risvolto di copertina:
Settant’anni, molti ricordi, un solo amore. Può capitare che si perda quell’unico amore e che venga voglia di scrivere. Per sanare la ferita, sfogare la rabbia, colmare il tempo vuoto. Si riempiono fogli, quaderni, ma la carta non basta ancora. Allora capita di aprire un armadio e di prendere un lenzuolo bianco dal corredo, uno di quelli che non si useranno più per riposare, per amare. E ci si rovescia sopra tutta una vita. Si torna alle origini, umilissime, quando si andava a scuola solo d’inverno, con gli zoccoli ai piedi e un cappotto rammendato. Quando si mangiava solo polenta, ché di pane ce n’era poco. Nel resto del tempo bisognava lavorare la terra, seminare, raccogliere. E prepararsi alla guerra, con lo straniero in casa, le tessere al mercato, i muri crivellati, la paura delle bombe e del padrone. Ad alleviare la fatica, l’amore per i figli, quelli allevati e quelli persi. E per un ragazzo dagli occhi azzurri, conosciuto a quattordici anni e sposato a diciotto. Questa è la storia semplice e straordinaria di Clelia Marchi, «gnanca na busia». Quando il marito muore in un incidente, Clelia è già anziana e inizia a trascrivere la storia della sua vita su un lenzuolo a due piazze, distillata in righe numerate, perché non si perda nulla di quel racconto «sul filo della sincerità». Grazie all’Archivio diaristico nazionale, quel lenzuolo è diventato un libro. Il tuo nome sulla neve nasce da una scrittura di sé che diventa terapia e, insieme, testimonianza di una civiltà contadina sempre più remota. Ed è la realizzazione del desiderio di Clelia di vedere letta la sua storia, che sentiva simile a quella di molte altre donne, eppure esemplare.
Dalla prefazione di Carmen Covito:
Clelia Marchi era una contadina di Poggio Rusco (Mantova), nata nel 1912, morta nel 2006 dopo aver perso quattro figli su otto, aver vissuto due guerre mondiali e aver patito tutta un’esistenza di sacrifici, povertà, fatica manuale. Nel 1972, ormai raggiunta la tranquillità di una casa in paese, con i figli sistemati e nipoti e pronipoti da godere, un incidente stradale le porta via il marito, il bello e onesto Anteo dagli occhi azzurri, conosciuto a quattordici anni e amato a sedici. Per un particolare accanimento della sorte, mancava poco alla scadenza dei loro cinquant’anni di matrimonio, un’occasione in cui avrebbero potuto, finalmente, festeggiare. L’amarezza, il dolore, l’improvvisa solitudine nel letto matrimoniale tolsero il sonno all’anziana signora. Si sentiva “come una vite senza l’albero” a cui si era avvinghiata per cinquant’anni, ricavandone tutta l’energia per rimanere in piedi e ripartire dopo ogni disgrazia: a che cosa poteva attaccarsi, adesso? Nella spietata saggezza delle contadine, la depressione è sempre stata un lusso che non ci si può concedere, perciò Clelia si trovò qualcosa da fare nelle notti insonni. Raccolse cartoncini, carte, fogli, li cucì per formare dei quaderni e scrisse, scrisse, scrisse come si piange, senza freno, a dirotto, all’ingrosso, a peso: chili e chili di quaderni. Fino a quando, una notte, rimase senza carta.
Allora aprì l’armadio, prese un lenzuolo, si posò un cuscino sulle ginocchia, sul cuscino spianò le pieghe del lenzuolo e, in quella posa classica da ricamatrice, cominciò a ricoprire di righe di scrittura la superficie candida della tela, intrecciando i ricordi della sua vita e “la storia della gente della sua terra, riempiendo un lenzuolo di scritte, dai lavori agricoli, agli affetti”.
Nel 1985 il lenzuolo-libro era completo: Clelia aveva ordinatamente numerato ogni riga per aiutare i lettori a non perdere il segno e aveva incollato sopra lo scritto, a mo’ di frontespizio, un’immaginetta sacra al centro e ai due angoli due fotografie, quella del marito e la sua, con le didascalie in inchiostro rosso. Non mancava nemmeno il titolo, un programmatico “Gnanca una busia”, in dialetto per farlo suonare più forte, più sincero. Ma a che pro raccontare la propria verità, se non trova lettori? Consapevole che a nulla serve scrivere ricordi e sentimenti “se nessuno li guarda, ò li legge”, Clelia chiese consiglio al sindaco del paese e nel marzo del 1986 prese il treno per Arezzo, poi una corriera, e con il suo lenzuolo ben impacchettato sottobraccio arrivò a Pieve Santo Stefano, dove Saverio Tutino aveva inaugurato da neanche due anni l’archivio dedicato alle scritture autobiografiche degli italiani. Quello che poi successe è storia nota. Nel 1989 Luca Formenton, durante una visita a Poggio Rusco, luogo natale di suo nonno Arnoldo Mondadori, venne a sapere del lenzuolo di Clelia, volle vederlo e fu subito colpito dalla particolare aura del documento. Il testo, pubblicato nel 1992 dalla Fondazione Mondadori, diventò un caso editoriale, dando all’autrice e alla sua opera una notorietà che non sarebbe stata transitoria. Oltre a venire sempre citato negli studi sulla memorialistica e la scrittura popolare, lo straordinario oggetto iscritto di Clelia Marchi è diventato il simbolo stesso dell’archivio diaristico di Pieve.